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Universalismo e pensiero postmetafisico
(Habermas)

Dalle pagine de Il pensiero postmetafisico, un testo uscito nel 1988, affiora la convinzione habermasiana che la metafisica (idealistica e platonica) sia una forma di pensiero onnipervasivo e totalizzante, incentrato sulla riduzione dell’essere al pensiero e sulla preferenza accordata alla teoria anziché alla prassi. In opposizione al pensiero metafisico, Habermas sostiene che il pensiero post-metafisico sia dialogico e comunicativo. Nel testo del 1992 intitolato Fatti e norme, il nostro autore sostiene che la tensione tra attualità e validità raggiunge nel diritto il culmine di intensificazione e operazionalizzazione. Habermas tenta di tenere congiunti nel diritto l’universalità della sfera normativa e la particolarità della forza e del pluralismo degli interessi. Nel testo Inclusioni dell’altro. Studi di teoria politica (1996), il nostro autore affronta il problema delle società pluralistiche in cui proliferano punti di vista diversi, diversi valori, che spesso tendono a degenerare in conflitti. Si tratta di pervenire a un universalismo che sia però sensibile alle differenze e alle particolarità impostesi col multiculturalismo. Anche in ciò, mirando ad un universalismo, Habermas si oppone ai Postmoderni e al loro elogio delle molteplicità intese come fine dell’universalismo e trionfo dei particolari punti di vista (si pensi a La società trasparente di Vattimo, che può essere inteso come il manifesto dell’atteggiamento postmoderno). Le “inclusioni dell’altro” a cui allude il titolo dello scritto habermasiano non devono essere intese né come assimilazione dell’altro nel senso dell’appiattimento di tutti i valori, né come chiusura verso il diverso: significa piuttosto che “i confini della comunità sono aperti a tutti”, senza che essi debbano, per poter entrare nella comunità, rinunciare alle loro credenze e ai loro valori. È esattamente in questo che risiede quello che Habermas definisce “patriottismo della costituzione”, ossia un “una convinta adesione ai principi universalistici della Costituzione”: ogni individuo della comunità può credere nel dio e nei valori che vuole, purché si riconosca nei principi costituzionali del Paese in cui vive. Si ha dunque un universalismo rispettoso delle differenze e delle pluralità. Nell’epoca del pensiero postmetafisico, di quello che Weber aveva chiamato il “disincantamento del mondo”, l’etica non può più fondarsi su principi ontoteologici e soteriologici: essa, per poter essere universale, deve basarsi sull’etica del discorso. Ma, allo stesso tempo, Habermas ha molto insistito su come la morale debba essere autonoma, prescindendo da ogni autorità religiosa, sociale, ontologica, ecc. L’uomo del mondo postmetafisico, rimasto “orfano di Dio”, non può fare affidamento su null’altro se non sulla ragione comunicativa e sulle sue procedure discorsive.
Habermas ha anche condotto una battaglia contro lo scetticismo e il relativismo: contro il relativismo, secondo cui ogni cultura è un sistema chiuso in se stesso e dunque incomunicabile con tutti gli altri, il nostro autore sostiene che, confrontandosi reciprocamente, gli uomini finiscono per trovarsi coinvolti in una logica intersoggettiva facente riferimento a regole e a pretese universali. Il che testimonia dell’esistenza di una razionalità comune a tutti gli uomini: più precisamente, una razionalità discorsiva e comunicante. Contro il relativismo dei Postmoderni (Vattimo e Lyotard), Habermas sostiene che si fa sempre più sentire l’esigenza di un “minimo comun denominatore” in grado di consentire un dialogo tra le diverse culture. Sull’altro versante, lo scetticismo può argomentare contro l’etica del discorso soltanto se fa proprie le regole dell’argomentazione, ossia assumendo come valida la teoria contro la quale combatte. E se anche scegliesse d non argomentare contro l’etica del discorso, non di meno lo scettico si troverebbe nella vita quotidiana a fare uso della discorsività. Sicché lo scetticismo è solo un “vuoto esibizionismo” che si autocontraddice.
Il nostro autore se la prende anche col cosiddetto “emotivismo etico”, tesi secondo cui i giudizi etici dipenderebbero da elementi emotivi o comunque extrarazionali. Contro questa tesi, Habermas fa valere l’opposta tesi del “cognitivismo etico”: infatti, non è forse vero che i giudizi morali non si limitano a esprimere i sentimenti del momento ma hanno un contenuto cognitivo?     
Per quel che riguarda la filosofia e il suo destino nel mondo attuale, il nostro autore si fa ancora una volta alfiere di posizioni illuministiche, sostenendo che al giorno d’oggi non vi sia “un troppo, ma un troppo poco di ragione”: è vero, la ragione non può più essere intesa come depositaria di un sapere ultimo e assoluto; ma ciononostante, essa non deve rinunciare al suo ruolo critico e smascherante, alla sua funzione di “custode della razionalità” e di baluardo della tradizione illuministica di cui s’è alimentata la nostra civiltà.