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Arrendersi o combattere
La scelta della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù

Di Carlo Palumbo



L’eccezionalità di un evento

Nel quadro degli eventi militari collegati alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, la vicenda della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù resta senz’altro la più significativa, non solo perché si tratta dell’azione più consistente di resistenza armata ai tedeschi tra quelle attuate nei giorni immediatamente successivi – e, almeno idealmente, può essere considerato, anche se questa interpretazione non è da tutti accettata, uno degli atti che apre la Resistenza al nazi-fascismo – ma perché rappresenta, per numero di vittime, la maggiore strage perpetrata dai tedeschi nel corso della Seconda guerra mondiale a danno di cittadini italiani e l’unico episodio in cui vengono uccisi in massa, dopo la resa, anche i soldati.

Che cos’è avvenuto nelle Isole Ionie nel settembre 1943?

A Cefalonia vi sono tra 9.000 e 11.000 soldati e sottufficiali italiani, gli ufficiali sarebbero secondo le valutazioni tedesche meno di 400, gli italiani indicano tradizionalmente la cifra di 525. Un presidio tedesco di 1.800 uomini è presente sull’isola, in una situazione di momentanea inferiorità. Tra il 9 e l’11 settembre, su richiesta del comandante tedesco, tenente colonnello Barge, il generale Gandin accetta di consegnare l’importante posizione di Kardakata e il controllo del porto di Argostoli; il giorno 11 Barge chiede di cedere le armi sulla base dell’ordine giunto a Cefalonia dal Comando di Atene. Gandin rifiuta e avvia una trattativa per essere rimpatriato in Italia con le armi.
Non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che contemporaneamente giunga a Cefalonia l’ordine del Comando Supremo di considerare nemici i tedeschi. Da subito sono comunque contrari alla cessione delle armi la Marina, l’Artiglieria, i Carabinieri e la Guardia di Finanza; dopo avere rifiutato l’aiuto offerto dalla missione militare alleata a Cefalonia, Gandin il 12 ordina a cinque battaglioni di Fanteria di depositare le armi nei magazzini, ma rinuncia per la reazione che si diffonde nei reparti e per l’opposizione di alcuni ufficiali; il 13 la divisione dovrebbe raccogliersi in due zone, secondo quanto concordato con Barge, ma dopo avere diramato l’ordine, fa rientrare i battaglioni in seguito alle richieste pressanti del tenente colonnello Deodato, dei comandanti dei Carabinieri e della Marina e di alcuni giovani ufficiali dell’Artiglieria. Il generale, che aveva già richiesto e ottenuto un parere favorevole sulla cessione delle armi agli ufficiali del Consiglio di guerra e ai cappellani militari, consultati per conoscere il parere della truppa, dopo che il giorno 13 le artiglierie italiane presenti nella baia di Argostoli, sede del Comando italiano, colpiscono due grosse zattere che cercano di sbarcare truppe tedesche e divenuta evidente la diffusa avversione alla cessione delle armi, decide di consultare anche i reparti sulle tre alternative possibili: «contro i tedeschi, insieme ai tedeschi, cessione delle armi». Prevale tra i soldati la prima scelta, anche se vi è la consapevolezza che i tedeschi sul continente interverranno rapidamente in appoggio al distaccamento presente sull’isola maggiore.
Il giorno 14 Gandin invia al Comando tedesco una «notifica» in cui comunica che la divisione si rifiuta di accettare l’ordine di resa e che è disposta a combattere pur di mantenere le armi. Il giorno successivo, mentre sono ancora in corso trattative tra le due delegazioni, l’aviazione nemica inizia a bombardare la città di Argostoli e le postazioni italiane, poco dopo inizia l’attacco da terra. I combattimenti vedono una iniziale prevalenza italiana, con la resa dei tedeschi attestati nel capoluogo; si cerca di riconquistare le posizioni cedute ai tedeschi nei giorni precedenti, ma con scarsi risultati e con molte perdite, perché gli attacchi avvengono sotto i pesanti bombardamenti degli Stukas.
Mentre dall’Italia risulta impossibile inviare aiuti, nei giorni successivi, a ovest e a nord dell’isola, riescono a sbarcare reparti tedeschi con armamento pesante. Dopo una settimana di combattimenti, il giorno 22, la divisione Acqui si arrende. Nei combattimenti muoiono centinaia di soldati italiani e decine di ufficiali; i sopravvissuti ai combattimenti «sono trattati secondo gli ordini del Führer» e, man mano che si arrendono nel corso della battaglia, contrariamente a tutti i regolamenti internazionali che definiscono i comportamenti degli eserciti belligeranti, sono immediatamente passati per le armi. Secondo le valutazioni dei comandanti tedeschi e di una parte delle fonti italiane, i caduti sono complessivamente circa 4.000, compresi circa 200 ufficiali.
Dopo la resa della divisione, avvenuta il 22 settembre, la vendetta tedesca si concentra sugli ufficiali, che vengono separati dai soldati e dai sottufficiali e sistematicamente eliminati: tra il 24 e il 25 settembre, alla casetta rossa di capo San Teodoro, nei pressi di Argostoli, capoluogo di Cefalonia, vengono fucilati quasi tutti gli ufficiali prigionieri, forse 129 secondo i dati più accreditati, altri sette il 25, ma probabilmente i numeri reali sono più alti.
Si salvano dalle fucilazioni una quarantina di ufficiali, costretti ad aderire alla Repubblica sociale italiana e quasi tutti trasferiti in Germania in campi di addestramento. Una parte dei corpi dei soldati uccisi, oltre agli ufficiali caduti a capo San Teodoro, è gettata in mare all’entrata della baia di Argostoli, mentre altre centinaia di corpi sono bruciati in grandi falò che illuminano la notte dell’isola. Tutti gli altri resti sono abbandonati senza alcuna sepoltura.
Anche a Corfù il comandante, colonnello Lusignani, con circa 4.000 uomini, decide di respingere l’ultimatum tedesco e di combattere. Nei giorni successivi giungono due cacciatorpediniere italiani, che vengono però colpiti, gli inglesi promettono aiuti, ma non arriveranno in tempo.
Il 24 settembre i tedeschi riescono a sbarcare in forze e il giorno successivo gli italiani sono costretti alla resa. Nei combattimenti o in seguito alle fucilazioni avvenute immediatamente dopo la fine degli scontri muoiono 640 tra soldati, sottufficiali e ufficiali, tra questi i colonnelli Lusignani e Bettini, che sono fucilati assieme ad altri 19 ufficiali dopo la resa, mentre i feriti sono 1.200, ma non vi sono i massacri di massa di Cefalonia. Molti uomini cercano di fuggire via mare, la maggior parte viene catturata e trasferita in Germania. Altri soldati saranno uccisi sulle imbarcazioni utilizzate per il trasferimento in Grecia.
Particolarmente significativo è il percorso attivato all’interno della divisione, dopo le prime trattative formali tra i due comandanti, per decidere di respingere l’ultimatum tedesco. Inizialmente lo Stato maggiore della divisione sarebbe disposto ad accettare l’imposizione di cedere le armi, ma alcuni reparti, soprattutto gli artiglieri e i marinai, sono contrari, dopo che erano giunte notizie sulle reali intenzioni dei tedeschi, che promettevano il rimpatrio in Italia delle truppe che avessero ceduto le armi, mentre in realtà si preparavano a deportarli in Germania e avevano operato rappresaglie su coloro che già si erano arresi su altre isole o sul continente. Il generale Gandin sceglie di consultare i reparti sulla decisione da prendere. Le truppe esprimeranno in varie forme un orientamento chiaro: a grandissima maggioranza decideranno di non cedere le armi e di resistere all’imposizione tedesca.


La sorte dei sopravvissuti

Finita la strage, nelle Isole Ionie rimangono tra 9.000 e 10.000 prigionieri italiani, 5.000 dei quali sono i sopravvissuti di Cefalonia. Altri soldati moriranno, per la fame e gli stenti, nei centri di raccolta dell’isola, dove rimarranno circa un migliaio di prigionieri fino alla partenza dei tedeschi, nel settembre del 1944, o nei diversi campi di deportazione allestiti nell’area balcanica e nell’Europa dell’Est, circa 2.500 in totale, che seguiranno le vicissitudini degli altri 6-700.000 soldati italiani internati dal governo tedesco; dei 6.400 prigionieri imbarcati a Cefalonia per essere trasferiti sul continente, in Grecia, di cui 2.550 provenienti da Zacinto, circa 1.350, quasi tutti soldati sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia, moriranno nell’affondamento di tre navi; da Corfù partiranno circa 9.100 soldati, molti però già provenienti da reparti catturati sul continente, l’affondamento di una nave trasporto provoca molte centinaia di morti, ma è impossibile attribuire le vittime ai reparti di origine. Nel novembre 1944, i militari italiani rimasti a Cefalonia, a cui si erano aggiunti uomini provenienti dal continente, in totale circa 1.300 soldati, inquadrati nel Raggruppamento banditi Acqui agli ordini del capitano Apollonio, rientrano in Italia, ad eccezione di un centinaio di volontari che continueranno la lotta assieme ai partigiani comunisti. Alla fine della guerra, dei circa 5.000 sopravvissuti della divisione Acqui a Cefalonia solo 3.500 saranno riusciti a tornare in Patria.



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